Posted On Luglio 26, 2017 In Criminologia With 2900 Views

Il trattamento penitenziario

di Ilaria Severini

Con la legge 26 luglio 1975, n. 354 vengono introdotti una serie di principi fondamentali di estrema importanza nel sistema penitenziario italiano. Tali concetti si rifanno al principio costituzionale della finalità rieducativa delle pene (art. 27 Cost.) definendo che il trattamento penitenziario costituisce quell’attività della Stato volta ad attuare concretamente la sanzione penale dettata dall’autorità giudiziaria nei confronti del condannato, allo scopo di rieducarlo e consentirgli la piena reintegrazione nella società.

A metà degli anni Settanta, il carcere era ancora disciplinato dal Regolamento penitenziario fascista, emanato dal Ministro di Giustizia Rocco nel 1931, il quale non prevedeva nessuna misura alternativa. Nel periodo tra il 1968 e il 1975 esplosero diverse rivolte dei detenuti che chiedevano una riforma penitenziaria, ma lo Stato ripose con la repressione, i trasferimenti o gli internamenti nei manicomi criminali. In quegli anni si ebbe anche un cambiamento della popolazione carceraria: ai delinquenti comuni, si vennero ad aggiungere i prigionieri politici, grazie al fenomeno terroristico che caratterizzava il contesto sociale italiano in quell’epoca.

 

Il carcere, quindi, diveniva sempre più terreno fertile per la lotta al sistema istituzionalizzato. All’interno delle mura carcerarie, le lotte dei detenuti che rivendicavano il riconoscimento di maggiori diritti e di una maggior umanizzazione della pena, si confondevano con la lotta politica contro l’intero sistema. Le problematiche del carcere divennero, per la classe politica, sempre più un’emergenza: da un lato aumentavano le rivolte da parte dei detenuti e dall’altra era sempre più forte l’esigenza di combattere i terroristi che sembravano trovare nel carcere terreno fertile per la propaganda.

 

Si giunse alla riforma con la legge 26 luglio 1975, n. 354: “Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”.

Tale riforma ha introdotto una serie di principi fondamentali di estrema importanza nel sistema penitenziario italiano. Uno dei pilastri portanti della normativa è stata l’introduzione del trattamento penitenziario ispirato ai principi di umanità e dignità della persona, proprio in attuazione della funzione rieducativa enunciata all’art. 27, terzo comma, della Costituzione.

 

In linea generale, qualunque attività o procedura di applicazione di una sanzione penale ad una persona condannata, comporta l’adozione di particolari metodologie operative e, quindi, di un trattamento. Questo presuppone, inoltre, che l’applicazione della pena si protragga per un lasso prolungato di tempo, come avviene nel caso delle pene detentive.

Con riferimento alla nuova Riforma attualmente vigente, improntata, appunto, sul principio costituzionale della finalità rieducativa della pena (art. 27 Cost.), la definizione di trattamento deve essere integrata: il trattamento penitenziario costituisce quell’attività dello Stato che si occupa di attuare concretamente la sanzione penale emanata dall’autorità giudiziaria nei confronti del condannato, allo scopo di rieducarlo e consentirgli la piena reintegrazione nella società.

 

Il trattamento penitenziario deve, inoltre, consentire al condannato la progressiva riacquisizione di spazi di libertà e autonomia in rapporto alla progressiva adesione al trattamento ed ai risultati derivanti dal percorso di risocializzazione, come stabilito dal principio sottostante alla sentenza della Corte Costituzionale n. 204/1974, relativo alla necessaria commisurazione della durata della pena all’effettiva rieducazione del reo.

L’art.1 della L. 26 luglio 1975, n. 354, enuncia i principi fondamentali che devono informare il trattamento penitenziario:

  1. Il trattamento penitenziario deve esse conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona: la norma recepisce il principio costituzionale di cui all’art. 27 Cost. Non possono essere ammesse metodologie punitive inumane, degradanti o umilianti per i soggetti reclusi.
  2. Il trattamento è improntato all’assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e credenze religiose.
  3. Il trattamento non può prevedere restrizioni della libertà non giustificate dall’esigenza di mantenere l’ordine e la disciplina interne agli istituti o di tutelare i fini giudiziari connessi alla custodia degli imputati. Costituiscono, perciò, ipotesi del tutto eccezionali le previsioni del regime di sorveglianza particolare (art. 14bis L. 26.7.1975, n.354; art.33 D.P.R. 30.6.2000, n. 230); del regime differenziato di rigore, contemplato dall’art. 4bis, L. 26.7.1975, n. 354; dell’esclusione dalla partecipazione al trattamento a titolo di sanzione disciplinare (art. 39, L. 26.7.1975, n. 354; artt. 73, 82 D.P.R. 30.6.2000, n. 230); dei controlli e censure alla corrispondenza dei detenuti (art. 18 e 18ter, L. 26.7.1975, n. 354; art. 38 D.P.R. 30.6.2000, n. 230).
  4. Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio di non colpevolezza fino alla condanna definitiva: tale principio introduce un’importante distinzione teorica tra il trattamento penitenziario generico, cioè il complesso di regole e principi che informa la vita negli istituti penitenziari, applicabile a tutti i reclusi indistintamente, e il trattamento penitenziario rieducativo, applicato soltanto ai condannati ed agli internati.
  5. Il trattamento dei condannati e degli internati deve essere rieducativo e tendere, anche attraverso contatti esterni al carcere, al reinserimento sociale.
  6. Il trattamento deve essere individualizzato e conformarsi alle specifiche condizioni di ciascun soggetto recluso: tali bisogni, devono essere individuati attraverso l’osservazione della personalità del detenuto, condotta da un’équipe di esperti e volta ad evidenziare le carenze sociali, familiari e fisiopsichiche che sono state alla base della devianza del soggetto e del suo disadattamento sociale (art. 13, L. 26.7.1975, n. 354). Nello schema di tale trattamento  si  inquadrano le misure alternative alla detenzione, le quali possono essere disposte  sulla  base dei risultati dell’osservazione della personalità, condotta  per almeno tre mesi (affidamento in prova al servizio sociale) o in relazione  ai progressi compiuti nel corso del trattamento (regime di semi-libertà)  ovvero quando il soggetto abbia dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione svolta nei suoi confronti (liberazione anticipata).

Questi sono, il linea generale, i maggiori cambiamenti introdotti in ambito giuridico dalla Riforma del 1975, ma ancora molto deve essere fatto perché entrino realmente a far parte della pratica del sistema carcerario italiano.

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